‘Dirty Computer’ di Janelle Monae si candida tra i primi posti nel panorama mondiale come disco del 2018
Per noi è stato un disco eccessivamente pompato, un classico senz’anima
La copertina del disco di Janelle Monàe
Il nostro parere collima con il giornalista
Janelle Monáe, Dirty computer
Quando si ascolta Dirty computer, il nuovo disco di Janelle Monáe, si fa fatica a trovargli un difetto. Tutto fila liscio, dalla prima all’ultima canzone. Ci sono gli ospiti giusti (Prince, Stevie Wonder, Grimes, addirittura Brian Wilson), gli arrangiamenti curati e i testi politicizzati, che ci spiegano quanto è difficile essere una donna nera e “pansessuale” negli Stati Uniti di oggi.
Però c’è un problema. Nonostante tutto questo, Dirty computer è un disco senz’anima. Forse perché è troppo cerchiobottista: non spinge troppo verso il pop da classifica, ma non è neanche un disco “colto”, spazia tra i generi, ma non ne sceglie mai uno. Non ha le melodie di The ArchAndroid (che resta il disco migliore di Monáe) e sembra un po’ troppo pensato a tavolino.
A parte l’ottima Dirty computer, arricchita dai cori di Brian Wilson, si fa fatica a trovare dei pezzi sopra la media (ma anche sotto la media): il singolo Make me feel è interessante per il testo, che gioca sulla sessualità di Monáe, ma è floscio dal punto di vista musicale, perché è una cover di Kiss (e non a caso pare che Prince fosse in studio durante la registrazione). Per Pynk vale un discorso simile: il pezzo funziona dal punto di vista retorico, ma meno da quello strettamente musicale.
Dirty computer sta al pop come Masseduction di St. Vincent sta al rock. Sono due dischi ben confezionati ai quali però manca un guizzo. Per farla breve, e con tutto il rispetto dovuto a un’ottima artista come Monáe, Dirty computer è un album noioso.
Diretto, pochi giri di parole il disco è considerato da Rolling Stones ed altre testate il disco dell’anno.
Per noi…. no.